di Giorgio Galli Geni della letteratura e cose che cambiano All’università, Viviana diceva d’essere la mia migliore amica. Ma io non le avevo mai detto ch’era la mia migliore amica. Era un titolo che s’era auto-data. Molti titoli, del resto, ella s’autoattribuiva. Un pomeriggio di settembre, azzurro come nella poesia di Brecht, Viviana m’aveva confidato: “Nella mia vita, ho conosciuto solo tre persone alla mia altezza”. Mi disse i loro nomi, e com’era prevedibile io non c’ero. Mi disse, in un’altra occasione, che divideva gli amici in “fondamentali” e non, e ancora una volta, com’era prevedibile, io non appartenevo alla categoria dei primi. Viviana attribuiva a se stessa un “carisma” sulle altre persone, ma le altre persone non le attribuivano che una certa supponenza. È del tutto conseguenziale che, quando Viviana parlava di suo fratello, scrittore e attore in erba, non lo presentava come scrittore e attore in erba, ma come un genio della letteratura. Del resto, era questa l’opinione che ne avevano in famiglia: quando si laureò in Lettere con centodieci su centodieci e lode, il fratello di Viviana venne festeggiato per quasi due settimane: i festeggiamenti per la sua laurea durarono quanto un matrimonio balcanico, perché, ad ogni occasione, si trovava una scusa per alzare i calici gridando “Abbiamo un genio, un genio!” Io, se mi fossi laureato a trent’anni come lui, avrei ricevuto dai miei genitori non due settimane di calici alzati, bensì di calci nel deretano, cosa ch’io stesso avrei trovato del tutto giusta e normale. Per inciso, anche l’umile sottoscritto scrive, come dimostrano queste poche righe, e però non s’è mai sentito un genio della letteratura; anzi ha sempre evitato di dire troppo in giro che scrive, proprio per non essere confuso con tutti coloro che considerano se stessi geni della letteratura: così geniali, magari, da non aver bisogno neanche di leggere libri altrui; e quando il più umile sottoscritto s’è laureato a sua volta con centodieci su centodieci e lode, e all’età di “soli” ventisei anni, nessuno in siffatta occasione ha avuto l’ardimento di gridare al genio. L’unica volta che presi io l’ardimento d’andare al cinema con Viviana e suo fratello, al termine dello spettacolo, con le luci in sala e la musica che si spengeva sui titoli di coda, udivo solo la voce di lui – del geniale fratello – che pontificava in un modo così assurdo da far venire in mente la battuta che a un suo simile aveva dedicato Woody Allen: “Come vorrei avere un’enorme palata di cacca di cavallo!” Se avessi citato quella frase, e quella scena – davvero geniale – di Io & Annie, forse la combriccola degli artisti non avrebbe capito che la odiavo: mi avrebbe preso fra i loro confratelli, eventualità ch’io aborrivo quant’altre mai. Che senso avevano i commenti che avevo appena udito? “Film geniale, regia geniale! C’è tutto! C’è Dante! C’è Dylan Dog!” Geniale, geniale: una parola sprecata, ripetuta, ch’io aborrisco quant’altre mai. Aborrivo quel circolo di eletti come la peste nera, gialla, rossa, bordò ed indaco. È del tutto conseguenziale che, da allora, evitai con ogni cura di tornare al cinema in siffatta compagnia. Com’era prevedibile, constatai che nessuno poteva intavolare, alla presenza di Viviana, una conversazione d’argomento letterario, perché si sentiva rispondere che l’unico titolato a discettar di tali cose era appunto il geniale fratello; e conseguentemente, dopo aver visto umiliare più d’uno che desiderava esprimere la sua umile opinione, mi comportai da perfetto analfabeta, che per pura casualità frequentava la Facoltà di Lettere, e sempre per pura casualità s’era laureato col medesimo voto del genio della letteratura, ma a quattr’anni di meno. Non mi stupì, pertanto, sentirmi dire da Viviana, un periodo che c’eravamo allontanati, che, se volevo, potevo anche smettere di considerarla la mia migliore amica. Me lo disse con una certa gravità, come se il momento fosse solenne, come se lei per pura magnanimità avesse deciso di sciogliermi da un giuramento. Evidentemente, in quegli anni lei era stata la mia migliore amica senza informarmene, per decisione unilaterale; e altrettanto evidente era la necessità di una sua espressa autorizzazione per rompere questo patto d’amicizia ch’io non sapevo d’aver contratto, ma che doveva essere proprio una cosa seria. Naturalmente, Viviana voleva far carriera, e considerava delle mentecatte le sue amiche che avevano per obiettivo la famiglia. “È mai possibile che, nel 2005, una donna desideri sposarsi?”, mi chiese scandalizzata, quasi urlando. Io, per la verità, desideravo sposarmi, anche se ero un uomo. Mi stupì quindi scoprire, due anni dopo, che Viviana si stava sposando. Andai alla cerimonia. Il geniale fratello non scriveva più, a trentadue anni aveva finalmente lasciato la casa dei genitori e trovato lavoro come insegnante, o meglio aveva incominciato a far qualche supplenza, poi qualche altra, poi sempre di più, finché era diventato un supplente di ruolo; il suo talento istrionico lo riserbava a occasioni come la festa di matrimonio della sorella, in cui si esibiva, completamente sbronzo, in qualità di cantante e showman. E, quanto a Viviana, non aveva perso l’alterigia dei bei tempi, ma riguardo al matrimonio aveva sicuramente cambiato idea: aveva gli occhi lucenti, ed era la prima volta che la vedevo così: umana, normale, una splendida ragazza come tutte – quale poteva essere da sempre, se non avesse avuto tutte quelle manie di grandezza. Viviana ha smesso di studiare, ha smesso di sognare la carriera e lavora coi bambini, quando può, perché il lavoro è scarso in questi tempi. Suo marito, un attore, fa spettacoli per i bambini malati, e mi sembra la fine più nobile che un artista mancato possa fare. Quanto a me io, com’era prevedibile, ho fallito tutto ciò che potevo fallire. Ne abbiamo parlato, il giorno del matrimonio di Viviana, e lei ha detto: “Non sei l’unico. Ricordi il proprietario del Trinity Pub, quel tipo introverso che aveva dei locali anche in provincia? Li ha chiusi tutti. Ora lavora in una polleria. Ogni mattina entra in una stanza piena di polli vivi e li uccide tutti con uno spiedo. Questo è […]
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